La distrazione dai pensieri che portano all’attacco di panico è spesso utilizzata dalle persone che ne sono soggette per ‘gestire’ l’attacco. In pratica, nel momento in cui sentono i primi pensieri ansiogeni, o i primi segnali del corpo, molte persone sono portate a distrarsi, cioè deviare l’attenzione cosciente verso qualcos’altro, per fare in modo che la fase più violenta dell’attacco non sopraggiunga affatto. Ma è un bene o un male?
L’efficacia della distrazione dipende anche dal momento in cui si attua.
Quando un individuo che soffre di attacchi di panico, diciamo nel traffico, deve prendere la macchina per recarsi, per esempio, al lavoro, lo fa sapendo di poter incorrere nell’ansia. Comincia una serie di pensieri che lo predispongono all’ansia già prima di cominciare il viaggio. Egli sa che, nel momento in cui si mette in macchina, se incontrasse traffico, o un tipo di strada in cui è difficile fermarsi o tornare indietro, esiste la possibilità concreta, se non proprio la certezza, di avere un attacco di panico. Ci sono molte probabilità che consapevolmente o inconsciamente vi sia una ideazione riguardo l’aspettativa ansiogena e questo non fa altro che aumentare a un certo livello la tensione interna.
Quella che ho descritto finora è una fase solo mentale, in cui la distrazione ha ancora senso. Dopo questa prima fase, infatti, l’ansia incomincia a farsi sentire nel corpo, ed è come se il soggetto avesse cominciato una discesa su una strada molto sdrucciolevole, in cui è difficile fermarsi, se non a costo di grandi sofferenze e fatica.
Se la distrazione viene cercata durante l’inizio della fase di ansia corporea, non più solo mentale, dunque, ma quando i pensieri hanno già cominciato a causare una certa influenza nel corpo (tachicardia, respirazione più veloce, aumento della pressione sanguigna, ecc.) e questa influenza è percepibile dall’individuo, allora la distrazione può ancora funzionare in quel momento, e scongiurare l’attacco di panico.
Il problema è che, così facendo, si blocca il ciclo normale del fenomeno, impedendo così quello che la psicologia cognitivo-comportamentale definisce il disapprendimento dell’ansia.
L’attacco di panico è uno di quei fenomeni difficili da capire fino in fondo, per chi li vive, finché non se ne coglie la giusta chiave di lettura. Il concetto di disapprendimento, d’altronde può essere semplificato fino al punto da ridurlo ad una metafora. Finché l’attacco di panico viene visto come il mostro da evitare a tutti i costi, non si può capire che si tratta solo di un’illusione, un mostro di cartone che sembra in tutto e per tutto reale. Solo attraversandolo l’individuo può capire, volta dopo volta, che può sopravvivere e, progressivamente, avere sempre meno paura.
È chiaro che detto così sembra fin troppo facile e, in effetti, lo è. Trovare il coraggio di passare attraverso il mostro, ed essere accompagnati durante il passaggio, metaforicamente parlando, è altrettanto importante come il fatto di decidersi a chiedere aiuto ad uno psicoterapeuta. Ma, sicuramente, la strada giusta punta in quella direzione. La distrazione, viceversa, risulta essere più qualcosa che allontana dalla giusta direzione, invece che avvicinarsi, né più né meno come per il naufrago tentare di dissetarsi con l’acqua del mare in mancanza d’acqua potabile. La tentazione è forte, ma non è detto che sia la cosa giusta da fare.